Le tre funzioni del linguaggio digitale e le loro conseguenze

(Questo testo è la Prefazione al volume: Linguaggi nella società e nella tecnica, 1968-2018 - Atti della giornata di studi organizzata dall’Associazione Archivio Storico Olivetti, in occasione del centenario della nascita del fondatore Camillo Olivetti, per riprendere e attualizzare i temi del convegno internazionale sui “linguaggi nella società e nella tecnica” promosso e organizzato nel 1968 dalla Società Olivetti. Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 15 Ottobre 2018).

* * *

Nel 1988, grazie a una borsa di studio dell’Università di Roma La Sapienza, fui ammesso come visiting student all’Università di Warwick, per studiare con Susan Haack, una delle più famose docenti di filosofia della logica. Tra i tanti ricordi, c’è quello di giornate senza fine, passate tra la caffetteria e i laboratori del campus, dormendo poco e lavorando senza sosta, scrivendo la tesi di laurea e facendo girare programmi di logica su uno dei tantissimi Olivetti M24, sempre disponibili, ad ogni ora e in qualsiasi giorno, per tutti gli studenti.

Erano bellissimi, indistruttibili, affidabili. A La Sapienza, da studente di filosofia, non li avevo mai visti. Quei computer parlavano DOS. Erano in rete, anche se il Web ancora non esisteva (nascerà l’anno successivo). Il rumore di sottofondo era il ronzio baritonale dei ventilatori di raffreddamento e il ticchettio ritmico delle instancabili stampanti a aghi, che traboccavano di onde di carta forata A3 verde pallido. Bisognava solo fare attenzione a staccare la propria stampata. Scrivevo sulla metà sinistra e Susan faceva annotazioni sulla metà destra. Una sola stampante laser per tutto il campus lavorava in batch: spedivi il capitolo e andavi a raccogliere lo stampato ore dopo, facendo molta attenzione perché ogni pagina era a pagamento. 

Oggi, ai miei studenti di Oxford, tutto questo sembra giustamente archeologia. Un mondo che hanno visto solo su Netflix. Ma in realtà il nuovo linguaggio digitale era già presente, e stava permeando sempre di più ogni aspetto della vita quotidiana. Era su questo linguaggio tecnologico che la Olivetti aveva organizzato un Convegno di straordinaria lungimiranza nel 1968, intitolato “Linguaggi nella società e nella tecnica. Convegno promosso dalla Ing. C. Olivetti & C. , S. p. A. per il centenario della nascita di Camillo Olivetti”, presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica di Milano. È a questo linguaggio e al cinquantenario di quell’evento che è stato dedicato un secondo Convegno, dal titolo evocativo “Linguaggi nella società e nella tecnica 1968-2018”, tenutosi a Milano presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli nel 2018, e di cui questo volume raccoglie gli atti. Ed è a questo linguaggio che vorrei dedicare una breve riflessione in questa Prefazione, per sottolineare l’importanza dei due Convegni appena menzionati.

Si pensa spesso che la funzione del linguaggio (naturale o artificiale) sia quella comunicativa. Il linguaggio serve per “parlare”, magari in simboli, per iscritto, o a distanza, grazie anche a varie tecnologie, ma il punto è chiaro. Difficile dissentire sulla verità di questa affermazione biologica, che paragona i linguaggi umani a quelli animali. In fin dei conti è da lì che veniamo, e i nostri linguaggi sono un’evoluzione di quelli rudimentali usati dai nostri lontani antenati darwiniani. Tuttavia, si può ragionevolmente obiettare contro la completezza della stessa affermazione. Il linguaggio umano non è solo un grugnito molto evoluto, o un cinguettio tanto più raffinato. Se ci soffermiamo solo sulla funzione comunicativa, finiamo per perdere di vista le altre due funzioni altrettanto fondamentali che esso svolge. Perché il linguaggio non serve solo a parlare del mondo, serve anche a costruirlo e a concettualizzarlo, in un senso molto concreto e realistico, letteralmente. Vediamo di che si tratta.

Interpretare il linguaggio, in questo caso quello digitale, solo in termini di comunicazione finisce per farci leggere la storia dell’informatica come un mero capitolo, anche se fondamentale, della storia dei mass media. Non è così, perché in realtà si tratta di un nuovo libro. La rivoluzione digitale non è Gutenberg 2.0 ma Turing 1.0. È vero che oggi il Web, i social media, la Internet of Things, qualsiasi software più o meno “intelligente”, le app e i cellulari che usiamo quotidianamente funzionano solo grazie alla trasmissione dei dati. Ed è vero che il mondo della comunicazione è stato rivoluzionato dal linguaggio digitale. Ma dobbiamo ricordarci che oggi viviamo immersi in queste realtà digitali, che rappresentano non solo un canale di comunicazione ma soprattutto un nuovo ambiente, una infosfera nel quale passiamo sempre più tempo. Nessuno ha mai vissuto “sul” telegrafo (a meno che non si parli di un uccellino e del suo nido), “sulla” televisione, o “sul” telefono (in senso non metaforico, qualche mia compagna di liceo era accusata dai suoi genitori di vivere appollaiata sulla cornetta). Al contrario, la nostra esperienza è sempre più onlife cioè online e offline, analogica e digitale. Passiamo le giornate su Internet (la pandemia ha reso questo necessario e ovvio), e anche quando usciamo di casa il digitale ci accompagna, foss’altro perché ci geolocalizza attraverso il nostro cellulare. Quando Zuckerberg suggerisce di trattare Facebook come qualcosa a metà strada tra un servizio telefonico e un giornale, o non capisce, alla pari di qualche intellettuale arenatosi alla filosofia dei mass media, o (più probabilmente) fa il furbo, perché Facebook è in realtà un habitat che ha molto più a che fare con la piazza e il parco pubblico, ed andrebbe regolata molto più in linea con questi spazi piuttosto che con quei servizi (si pensi al diritto di libertà di espressione, diversamente esercitabile quando sono al telefono o quando sono nei giardinetti del quartiere). Perché il linguaggio digitale non serve solo a parlare del mondo, ma oggi soprattutto a costruirlo. 

Per capire come questo sia possibile, basta ricordare Galileo e la sua famosa affermazione ne Il Saggiatore: “La filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica”. Per Galileo l’universo era un libro, scritto nel linguaggio della matematica, e il compito era quello di leggerlo o decifrarlo. Ma per noi, dopo Turing e il successo dell’informatica, il linguaggio digitale serve anche, e spesso soprattutto, a scrivere nuovi capitoli di questo libro della natura. Il linguaggio digitale non solo descrive ma inscrive il mondo. Ogni linea di codice, ogni pagina Web, ogni nuovo servizio che amplia l’infosfera è anche una nuova riga che estende il libro-universo di Galileo. Questo non dovrebbe sorprendere troppo. Il linguaggio umano è anche fatto per costruire realtà. Usiamo spesso il linguaggio per fare non solo per dire cose, come sottolineava Austin. Si pensi al linguaggio della giurisprudenza, a quello dei giochi da tavolo (le cui regole sono non solo vincolanti, ma costitutive della stessa attività di gioco) o alla semplice funzione di una promessa o di un battesimo. La differenza macroscopica è che oggi il linguaggio digitale sta scrivendo e riscrivendo intere pagine del libro della natura.

Anche per questo, cioè anche per il fatto che il linguaggio digitale è costitutivo di intere nuove realtà nelle quali o con le quali viviamo, è importante capire che il linguaggio digitale è anche il mezzo con cui concettualizziamo il mondo, noi stessi, le nostre esperienze e relazioni. Non intendo fare riferimento solo al fatto, cruciale, che oggi il sapere umano avanza grazie all’informatica. È palese che non esiste ambito scientifico in cui il linguaggio digitale (dalle banche dati alle elaborazioni statistiche) non sia una condizione necessaria per il progresso della ricerca. In realtà intendo sottolineare un aspetto più culturale e cognitivo. Il linguaggio digitale formatta (ecco che ho appena applicato quello che sto dicendo) il nostro modo di pensare, nel bene e nel male, ed è importante esserne consapevoli, per poi non esserne più succubi e poter migliorare questa funzione, adattarla alle nostre necessità, priorità e desideri, insomma per essere noi a controllare il nostro linguaggio (digitale ma non solo) e non viceversa. Oggi vediamo la realtà attraverso schemi concettuali che danno significati specifici e sensi globali alla nostra comprensione del mondo e delle nostre esperienze attraverso il linguaggio digitale. Si pensi solo all’Intelligenza Artificiale (IA) e alla neuroscienza. L’IA, in mancanza di un suo linguaggio adeguato, si è appropriata del linguaggio antropomorfico per parlare della capacità di un software di risolvere un problema con successo in vista di un fine senza la necessità di essere intelligente, e usa termini come “apprendere”, “riconoscere”, “capire”, “vedere”, “tradurre” per descrivere le attività di un computer, di una rete, o di un robot. È un po’ la vittoria linguistica dell’analogico sul digitale. E la neuroscienza, in mancanza di un suo linguaggio e anche a causa della sua totale dipendenza dall’informatica (senza informatica non potrebbe esserci la neuroscienza attuale), si è appropriata del linguaggio digitale per parlare del cervello come se fosse un computer che processa e registra dati, spingendosi a paragonare la mente al software e il cervello o “wetware” all’hardware, e così via. Più in generale, questa concettualizzazione ci fa vedere il mondo e noi stessi con occhi ben diversi che se parlassimo del cervello come se fosse un orologio meccanico o, come faceva Leibniz, della mente come se fosse un mulino, che produce percezione e coscienza elaborando dati, come il mulino produce farina dal grano.

Una volta chiarito che il linguaggio digitale sta cambiando la nostra cultura non solo in termini di comunicazione, ma anche – e direi in modo molto più profondo e significativo – in termini di costruzione e concettualizzazione della realtà (ri-ontologizzazione e ri-epistemologizzazione, per usare parole filosofiche un po’ forti), almeno quattro conseguenze principali diventano evidenti. Le presento in un ordine non cronologico o logico, ma di (quella che a me sembra) crescente importanza.

Prima conseguenza: da un punto di vista conoscitivo (epistemologico), il linguaggio digitale ha ulteriormente spostato la nostra attenzione dai saperi che, almeno in una concezione semplicistica, descrivono il loro referente – dall’astronomia antica alla chimica e alla biologia moderne, alla fisica contemporanea – ai saperi che non solo descrivono ma anche costruiscono il loro referente, si pensi all’economia, alla sociologia, alla scienza politica, alla giurisprudenza, all’architettura e all’ingegneria, e ovviamente all’informatica (si noti come la medicina sia sempre stata a metà strada, tra descrizione della malattia e mantenimento o ripristino della salute). Questo slittamento di focalizzazione dai saperi prevalentemente mimetici ai saperi soprattutto poietici è epocale, sta cambiando la nostra cultura scientifica e la nostra filosofia della scienza. Credo che il linguaggio digitale, nelle sue tre funzioni, sia stato e continui ad essere una delle cause principali di questo riorientamento.

Seconda conseguenza: capire le tre funzioni del linguaggio digitale significa anche comprendere che la nostra società e economia dell’informazione è neo-manifatturiera. Si progettano, disegnano, costruiscono, producono, commercializzano e fruiscono manufatti, solo che ora i manufatti sono digitali, o hanno componenti digitali, e sono sempre più legati al valore aggiunto di servizi e esperienze piuttosto che alla sola produzione di oggetti fisici. Per questo sottovalutare il digitale come mero “virtuale” e non apprezzarlo come una realtà altrettanto autentica e importante quanto quella analogica significa pensare ancora che il computer sia solo il pronipote del telegrafo. In una società neo-manifatturiera, innovazione significa soprattutto design con e del digitale, più che invenzione o scoperta.

Terza conseguenza: vista la cruciale importanza del linguaggio digitale, è chiaro che oggi il mondo dell’educazione e della formazione dovrebbe focalizzarsi sull’apprendimento delle lingue “parlate” dall’informazione. Non solo la propria lingua madre, l’inglese, la programmazione, la statistica, la matematica, e la logica, ma anche le lingue parlate dalle varie scienze, dalla storia, dalla geografia, dalla musica, dall’economia, dall’arte, dalla filosofia, dalle civiltà che hanno formato la propria cultura e così via. Saper veramente parlare queste lingue non significa avere i fatti a “portata di mente”, per questo basta un cellulare a portata di mano, ma essere in grado di “leggere e scrivere” queste discipline, di contribuire a migliorarle e arricchirle, e saperle applicare in modo efficace. Il test è semplice: ogni voce di Wikipedia che non so “leggere e scrivere” (capire, correggere, ampliare in modo competente) è un limite della mia conoscenza e del mio sapere e quindi della mia comprensione del mondo e della mia crescita individuale. Oggi il mondo ha bisogno di poliglotti, non di eruditi (che accumulano fatti e nozioni) o tuttologi (che straparlano su qualunque cosa), anche perché il nozionismo invecchia rapidamente, mentre la competenza linguistica migliora nel tempo, con l’uso.

E in fine: il linguaggio digitale ci ricorda che oggi chi controlla il “logos digitale” cioè le funzioni comunicative, costruttive e concettuali del linguaggio digitale, ha anche responsabilità enormi, in termini di come ci rapportiamo tra noi, come disegniamo e gestiamo le realtà che ci circondano e noi stessi, e come interpretiamo e diamo senso al mondo, alla vita e alle nostre esistenze. Per questo l’uso del linguaggio digitale richiede un’etica del digitale all’altezza della sua potenza trasformativa.

Siamo arrivati al termine di questa breve Prefazione. Nel 1989 ero di nuovo a Warwick, per il Master e poi il PhD. Ricordo ancora il giorno in cui riuscii finalmente a trasferire dei files via ftp (un comando TCP/IP) su un Olivetti M111 portatile, un gioiello prodotto quell’anno, regalo meraviglioso e lungimirante dei miei genitori per la laurea. 

Fu il mio momento paolino, sulla via dell’informatica. La rivoluzione digitale mi apparve lampante, irresistibile, irrefrenabile, e filosoficamente cruciale, epocale. L’importanza del linguaggio digitale fu una rivelazione che ha determinato il resto della mia vita intellettuale. Mi ero convertito, vent’anni dopo il Convegno celebrato in questi atti. Aver intravisto tutto questo nel 1968 deve essere stato straordinario. Aver contribuito a realizzarlo, come azienda protagonista internazionalmente deve essere stato entusiasmante. Celebrare quei successi con questi atti è il meritato riconoscimento della genialità e della lungimiranza Olivetti.

Comments

  1. Mi fa piacere constatare che il mio "momento paolino" su questi argomenti è molto simile al suo. Febbraio 1993, pausa fra un esame e l'altro, un amico mi "preleva" dalla mia facoltà e mi porta in aula di informatica di ingegneria di Padova. Mi mostra la possibilità di parlarsi fra due computer collegati in rete fra di loro (il programma era "talk").
    Sapevo già bene cos'era un computer, ma non avevo idea si potessero scambiare dati se non con i floppy. Quando mi rendo conto della cosa, capisco che il futuro entusiasmante sta proprio davanti ai miei occhi: informazioni digitali, reti, collegamenti.
    Grazie per farci da cibernauta in questo nuovo mondo. :)

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  2. Grazie! Un post importantissimo! due commenti:
    (1) Viene tradotto in inglese
    (2) Per me e non solo, la prima conseguenza, in realtà è una incapacità.
    Incapacità di passare dal mimetico al poietico. Quindi le scienze poietiche vengono corrotte e ridotte. Prenda esempio dalla capacità dei ns. email: sono monodimensionali, non hanno per esempio l’odore che noi umani usiamo anche per costruire la fiducia nei rapporti. Più ampiamente può vederlo in questi mesi passati attraverso l’insoddisfazione dell’uso digitale al posto di quello fisico e sociale, la difficoltà a non-avere rapporti sociali tranne che per mezzi digitali, manifestamente non adatti per quest’uso dall’essere umano, ma sufficiente per i robot. È diventato per me la lezione più importante di COVID-19

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