Il sapore della felicità condivisa

Il 19 marzo del 1850, Charlotte Brönte scrive una lettera a William Smith Williams, l’editore presso Smith Elder che per primo aveva riconosciuto in lei una straordinaria scrittrice. Williams le ha inviato alcuni libri da leggere, e lei, nel ringraziarlo, usa una frase divenuta famosa e che oggi troviamo citata ovunque: “la felicità non condivisa può a malapena essere chiamata felicità. Non ha sapore/gusto.” (Happiness quite unshared can scarcely be called happiness—it has no taste). Per le persone misantrope e asociali, o anche semplicemente un po’ solitarie, che ritengono che la solitudine sia l’unica felicità (beata solitudo, sola beatitudo), l’affermazione sembra del tutto errata. Eppure, è difficile non riconoscere che esiste un tipo di felicità che richiede la sua condivisione per essere goduta a pieno e non restare incompleta.

Non si tratta della felicità intesa come contentezza. Come si sa, questa fa riferimento allo stare bene con se stessi e con la propria vita, in pace con le speranze e le aspettative che si hanno avute o si hanno ancora, tranquilli per quello che ci è toccato in sorte, senza troppi rimpianti o rincrescimenti verso il passato, e senza illusioni presenti che rischiano di trasformarsi in delusioni future. La contentezza è il genere di felicità raccomandata dalla saggezza della filosofia stoica, per esempio, che indica nel sapersi accontentare l’essenza di una vita non infelice (la doppia negazione è voluta). È una questione di equilibrio stabile, il contrario di un’esistenza in cui si è sempre sbilanciati alla ricerca di qualcosa di nuovo, ulteriore, o diverso. Preferiamo le persone contente a quelle scontente anche perché queste ultime sono sempre inappagate e quindi irritanti per la loro incapacità di apprezzare sia quello che hanno di positivo sia quello che non hanno di negativo. Chi cerca la contentezza può trovarla, perché sta in noi la capacità di ottenere una simile armonia. Basta anche solo ricordarsi l’infinità di cose storte che non ci sono capitate durante il giorno. Ma non è di questo che parla Brönte. Perché si è del tutto contenti anche per conto proprio, ma si è pienamente felici solo con l’altro.

Non è neppure la felicità intesa come gioia. La gioia è un’emozione che proviamo quando qualcosa è andata bene, una speranza è soddisfatta, un progetto si è realizzato, o un evento favorevole, magari anche inaspettato, è accaduto. Non si può essere gioiosi per molto tempo, senza avere ragioni di rinnovo dell’emozione in questione. Ci sono momenti di gioia, ma non periodi. La gioia non è uno stato d’animo prolungato e sostenibile, come invece è quello dell’essere contento della propria esistenza giorno dopo giorno, o quello dell’essere sempre allegro, intendendo con questo una disposizione positiva o spensierata nei confronti della vita, o ancora, quello dell’essere felice insieme all’altro. Se si è fortunati, quando la gioia momentanea svanisce, al suo posto subentra la felicità, e poi magari l’allegria o la contentezza, che sono stati d’animo molto più stabili e duraturi. Per questo nelle favole i personaggi finiscono per vivere “felici e contenti” ma non gioiosi per sempre. E per questo, come nel caso dell’essere allegri, si può gioire a pieno insieme agli altri, ma anche da soli. Anzi, forse certe gioie sono solo solitarie, nel senso in cui possiamo godere di certi sapori (il “taste” di cui parla Brönte) soltanto in modo soggettivo e individuale. Alcuni successi, per esempio certe vittorie su noi stessi, sono comunicabili ma non condivisibili, eppure non per questo sono meno gioiosi.

In realtà, ho l’impressione che la felicità di cui parla Brönte, che è condivisa, non sia neppure quella sociale di cui parla la psicologia cioè la felicità che nasce dallo stare con gli altri. La felicità in questione è quella di cui già godiamo in parte, ma che richiede la condivisione con l’altro per essere completa. È una cosa diversa dalla contentezza, dalla gioia, e dall’allegria, perché richiede una piccola componente di estasi, nel senso etimologico di fuoriuscita da noi stessi, per essere in comunione con l’altro, non come gocce d’acqua che unendosi si annullano, ma come pozze di marea (“tide pools”), che a seconda delle onde, del vento, della pioggia, della bassa o alta marea, condividono condizioni e forme di vita comuni. Si tratta della felicità della festa, che da soli ha poco senso, di un caffè che è più piacevole se preso con una persona amica, di un pranzo in famiglia, di un film visto in due, di un goal della propria squadra celebrato in gruppo, di un concerto ascoltato insieme, dei regali comprati da noi e scartati da chi li riceve. Questa felicità già esiste in noi ma ha bisogno dell’altro per espandersi in tutta la sua forza. Solo la sua comunicazione e condivisione con l’altro la porta a pieno compimento. Goduta in solitudine, individualisticamente, resta rattrappita, un po’ goffa, saltella malamente, e non spicca il volo. Mi ricorda l’albatros descritto da Baudelaire nei suoi I Fiori del Male: solo, sul ponte della barca, impacciato, e ridicolizzato dai marinai per le grandi ali che lo intralciano.

Se è così, allora forse un modo per capirla meglio, questa felicità che si articola completamente solo se condivisa, è pensarla come la controparte della gratitudine, altra esperienza estatica. È meno strano di quanto possa sembrare. In fin dei conti, quando siamo infelici tendiamo a riprendercela con qualcuno o qualcosa di esterno a noi: un collega, il traffico, un fallimento, un incidente, una seccatura, il giorno sbagliato della settimana, un gatto nero, il demonio in persona. E nell’infelicità imprechiamo contro le sue cause, reali o meno che siano, sentendoci meglio anche solo accusando la sfortuna. L’infelicità si accompagna al risentimento e alla maledizione. Allo stesso modo, nei momenti felici, vogliamo anche ringraziare qualcuno o qualcosa per il fatto che le cose sono andate bene. Si maledice nell’infelicità come si benedice nella felicità. E per far questo, condividiamo con l’altro la felicità che proviamo per l’evento in questione, al contempo riconoscendo nell’altro la sua felicità come anche la nostra. Ne parliamo, ci ripetiamo, aggiungiamo dettagli, richiamiamo ricordi, torniamo tra di noi di nuovo su quanto sia bello che qualcosa sia andata come è andata. C’è un bellissimo momento, nella Tempesta di Shakespeare, quando Miranda, che crede di aver visto un naufragio tragico, afferma: “Oh, come ho sofferto con quelli che vidi soffrire! (Oh, I have suffered With those that I saw suffer. The Tempest 1.2). Si può ribaltare quella frase per dire “Oh come sono stata felice con quelli che vidi felici”. È questo rispecchiamento estatico che libera e moltiplica tutta la potenza della felicità condivisa.

Siamo più felici se lo siamo insieme. Brönte aveva ragione. Dal che segue che siamo veramente (nel senso di pienamente) felici solo se non siamo soli. Individualmente, separatamente, possiamo al massimo essere contenti, o magari gioire ed essere allegri. L’altro è anche causa di paura, di violenza, di apprensione, ma senza l’altro non c’è piena felicità. Non ci si abbraccia da soli. O con un gioco di parole che funziona solo in inglese: uno può “brace oneself” (prepararsi) ma non può “embrace oneself” (abbracciarsi).

Resta ancora una questione cruciale da risolvere. Perché a volte la felicità da condividere sembra andare oltre la condivisione con chi ci circonda. L’io può condividerla con un altro io, ma insieme, con chi la condividono per renderla completa? Io e te, ora uniti in un noi, con chi ne parleremo? A chi diremo grazie e dicendolo saremo finalmente del tutto felici?

Forse a nessuno. Forse l’umanità basta a se stessa. Forse deve bastarsi. Non individualmente, ma tutta insieme. Deve accontentarsi. Perché fuori dall’orizzonte della vita e della storia umana non c’è altro nell’universo. Siamo soli. Meglio “brace ourselves”: prepararci e accontentarci, come suggerisce saggiamente Marco Aurelio. Ma, da ex-credente ora agnostico, non ho dimenticato il sapore di quella felicità condivisa con tutto l’universo e con quello che credevo fosse il suo creatore. Quella felicità è ambiziosa. Vuole essere completa. Non si accontenta. Preme per trascendere la storia. Me la ricordo. Non è raffinabile perché è pura, non è aumentabile perché è piena, non è migliorabile perché è perfetta. È la felicità assoluta, perché non vincolata da altro fuori di sé. E se, come dice Brönte, la felicità non condivisa tra noi non ha sapore, quella condivisa con l’assoluto è indimenticabile.

Non essere più in grado di dire “grazie a Dio” quando si è felici, per essere felici insieme e a pieno con tutto il “creato”, ma poter ringraziare solo la storia, nella sua accidentalità, e la ruota della fortuna: è questo il “taste” più intenso di cui parla Brönte che manca a un agnostico scomodo come me, che rimpiange di non poter più affermare con fede: alleluia.

Comments

  1. Nel testo illuminante di Paul warzlawick “La Realtà’ della realtà” è espresso il concetto di confusione che regna sovrano

    ReplyDelete

Post a Comment

Popular posts from this blog

(revised on Medium) On a sachet of brown sugar (series: notes to myself)

Onlife: Sulla morte di Corman McCarthy e "the best writers" della letteratura americana

Breve commento su "Non è il mio lutto" e la morte di Berlusconi.

Sulla morte come "distanza che si apre nella vita"

On the importance of being pedantic (series: notes to myself)

The Loebner Prize from a judge's perspective

Between a rock and a hard place: Elon Musk's open letter and the Italian ban of Chat-GPT

On the art of biting one's own tongue (series: notes to myself)