Sulla morte come "distanza che si apre nella vita"


“La morte è una distanza che si apre nella vita, ma non è sparizione, distruzione, putrefazione.”

Ho letto questa frase (chiamiamola non-P), è parte di un articolo giornalistico (non si può imporre un rigore scientifico, non è il contesto). Ho letto il resto dell’articolo. Non migliora. Non ha importanza. Desidero soffermarmi solo su questa frase.

Da tanti anni non sono più un filosofo analitico, ma mi è rimasta l’inclinazione (il vizio senza pelo del lupo?) di (cercare di) usare le parole con attenzione e cura. Cercando di ancorarle a significati che non siano “futuristici” (parole in libertà). Troppe persone confondono il fatto che una frase sia grammaticale con il fatto che abbia un reale senso. Si può anche dire:

P) “La morte non è una distanza che si apre nella vita, è sparizione, distruzione, putrefazione.”

P è altrettanto grammaticale e credo che abbia molto più senso di non-P, almeno biologicamente e concettualmente. I fatti puntano in questa direzione. E chi sostiene il contrario, chi sostiene non-P, ha sulle sue spalle il peso della prova, non chi sostiene P. Perciò non dovrebbe spacciarla come qualcosa di incontrovertibile. Ma torniamo alla frase originale.

Ora, che cosa può significare in non-P che la morte è una distanza (tra chi o che cosa) che si apre (una volta sola, come un spacco? Oppure continua ad aprirsi sempre di più, come una faglia?) in uno spazio chiamato vita? Se stiamo dicendo che è una distanza tra noi, vivi, e loro, morti, allora basta dirlo così, capendoci subito. È una banalità un po’ retorica ma è chiara ed è plausibile . Via via che passa il tempo la morte di mamma è una “distanza” nella “vita”. Insomma: la vita passa e sono sempre più anni che mamma è morta. Grazie al cavolo, ma vero. Ma se è una distanza NELLA vita, cioè al suo interno, uno sta assumendo che di qua e di la c’è la vita. Come una spaccatura nel legno, fissa o dinamica che sia, è NEL legno, che la caratterizza proprio come una sua spaccatura. E qui sta il passo implicito e silenzioso di chi fa assunzioni immense, senza giustificarle. Perché, per quanto ne sappiamo, la frase (non-P) o non ha senso, oppure è falsa. La morte è dove finisce il legno, non è una spaccatura nel legno, per capirsi. È assenza completa della vita, non è - per quanto ne sappiamo - un buco per strada, basta saltarlo (riferimento voluto al salto della fede) tanto dall’altra parte c’è il marciapiede. Mi si dirà: ma io CREDO che sia così. Ottimo. Allora dillo come va detto: credo che la morte sia una mancanza tra una vita mortale e una immortale, di qua e di là. A me pare una bellissima favola. Un tempo ci credevo anche io e darei qualsiasi cosa (nessuna retorica) per crederci di nuovo. Ma soprattutto si capisce, il punto è chiaro, anche se temo che sia, per persone come me, incredibile nel senso etimologico della parola. Chi ci crede e chi non ci crede. Non è un fatto, non è un verità, non è neppure una cosa plausibile, o probabile, o sulla quale c'è notevole accordo. È una cosa che andrebbe detta con un condizionale tipo "Io credo che". A questo punto subentra la libertà di fede, di dubbio e di certezze molto diverse … ciascuno può credere quello che vuole, e vivere la sua vita secondo le credenze che ha, ci mancherebbe. Senza però asserirle con quel tono apodittico, che è solo ridicolo e vuole impressionare con trucchi retorici. Il resto è brutta scrittura, intellettualmente oscura e fuorviante. Piace giustamente a chi ha già la fede, che la morte sia solo “una distanza che si apre”, qualsiasi cosa questa frase possa mai significare realmente. Ma rispetto molto di più chi dice con chiarezza: “credo nella resurrezione dei morti”. Ora ci capiamo. e sopratutto sappiamo chi ha l'onere di convincere chi.

Parlare per dire cose che hanno significato, non per vendere credenze (beliefs) sottobanco senza che il compratore se ne accorga. Sarebbe già un passo avanti.

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